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IL
              PUNTO    Contributi  per un bilancio critico 
 Premessa  Crediamo  nell’utilità dei bilanci i quali, per essere davvero utili, devono  essere critici, specialmente nei confronti di chi li elabora.    D’altronde  un bilancio non ha valore se rimane limitato ai soli ambiti interni  proprio perché in essi si ritrovano, talvolta, i medesimi limiti che  si intende evidenziare.  Infatti  nemmeno noi ci sentiamo immuni dalle stesse critiche che formuliamo e  che valgono anche in riferimento a errori che hanno caratterizzato il  nostro percorso politico.  Il  fatto è che questi errori - un certo settarismo di derivazione  autoreferenziale e il cullarsi nel minoritarismo; la pretesa di avere  comunque la verità in mano unitamente all'impiego di linguaggi e  comportamenti spesso arroganti e non consoni a sviluppare  interlocuzioni con chi non la pensa come noi; una certa presunzione  intellettuale che determina l’arroccamento nel particolarismo e  l'assenza di bilanci delle esperienze nostre – ci hanno spinto alla  necessità di un’autocritica sul processo di costruzione  dell’organizzazione politica comunista libertaria, che continuiamo  a ritenere non solo necessaria ma urgente.  Ci  siamo cioè resi conto che, alla fine, contano anche i numeri: o  l’anarchismo riesce a catalizzare le proprie forze più  consapevoli, riunendole in un programma di intervento politico  concordato per avviare un reale processo di crescita, oppure sarà  condannato all’irrilevanza.    Coloro  i quali non conoscendo la storia del movimento anarchico italiano di  questi ultimi decenni si troveranno a leggere le note che seguono,  tengano presente che queste costituiscono un contributo per aprire un  dibattito interno a questo movimento nel quale gli scriventi  continuano a riconoscersi.  Nonostante  una inevitabile specificità “per addetti”, crediamo che lo  scritto possa comunque essere di stimolo a tutte quelle esperienze  politiche individuali e collettive che, per quanto non  necessariamente anarchiche, avvertono l'urgenza di una riflessione  critica sulla crisi della sinistra di classe nel nostro paese. Dentro  e fuori al movimento anarchico  In  Italia, sia pure in considerazione delle difficoltà del presente,  l'anarchismo ostenta, un certo compiacimento più o meno diffuso tra  tutte le sue componenti: ha i suoi giornali e siti innumerevoli quasi  tutti ben fatti ed aggiornati; le sue case editrici editano testi di  qualità; i suoi centri di documentazione e di iniziativa svolgono  attività di riconosciuto interesse anche accademico e gli anarchici  sono presenti nei movimenti sociali e nelle organizzazioni sindacali  laddove, “gratta gratta”, l'anarchico lo trovi sempre:  dalla CGIL all'USI. Esistono  inoltre aggregazioni variamente caratterizzate la cui storia rimanda  ai diversi percorsi di costruzione dell'organizzazione politica, così  come sono andati configurandosi dal secondo dopoguerra. Se  poi consideriamo che numerosi esponenti della cultura e della società  civile hanno guardato e guardano all'anarchismo con rinnovato  interesse, parrebbe proprio  che le difficoltà della fase non  costituiscano motivo di allarme per il movimento anarchico italiano:  ma le sopra dette ottimistiche considerazioni risultano, in realtà,  alquanto effimere proprio perché valgono solo all'interno di questo  movimento e non nella realtà sociale che lo circonda, là dove  risulta essere del tutto ininfluente. Vediamo allora di spiegare le  ragioni di questa insufficienza. Vero  che la rivoluzione non si afferma con la sola volontà di farla ma la  si costruisce, e che questa costruzione necessita del combinarsi  delle opportune circostanze storiche “oggettive e soggettive”;  ma è anche vero che se in questa transizione la classe, che non  impropriamente definiamo la “nostra classe”, sconta una  grave condizione di sconfitta, allora ciò vuol dire sopra tutto che: -   un motivo dovrà pur esserci -   qualche cosa, evidentemente, abbiamo sbagliato anche noi. “Risultante  capitalista” e particolarismo.  Non  è che il movimento anarchico italiano taccia o abbia taciuto  rispetto alle sopra dette evidenze: è che i suoi contributi al  riguardo, pronunciati sia da singoli commentatori che da fonti  collettive, sono quasi tutti da annoverare tra gli enunciati di  principio e scontano il limite del volontarismo proprio perché non  si pongono il problema della verifica con le concrete dinamiche della  lotta di classe. Per meglio essere compresi, dettagliamo questa  nostra critica valutazione ricorrendo ad alcune esemplificazioni in  schema, senza la presunzione di essere esaustivi al riguardo. La  lotta di classe è un fenomeno “risultante”; deriva  cioè dalla composizione di forze di diversa  intensità, direzione e verso che agiscono, sparse, sul piano dello  scontro tra le classi.  Tale risultante  è data e, piaccia o meno, “tira” oggi unilateralmente a favore del capitale.  Le caratteristiche di questa spinta  risultante, che possiamo definire “capitalista”, non devono  indurre a sottovalutare quelle forze che “tirano” nel senso delle classi subalterne:  ma queste stesse forze non devono  nemmeno essere sopravvalutate proprio perché,  almeno nel nostro paese, esse sono complessivamente deboli e se  appaiono forti ciò è dovuto a circostanze particolari, in quanto  tali non generalizzabili a contesti più ampi. La  risultante dell'intero sistema è infatti “capitalista” e non “proletaria” in quanto  riesce ad neutralizzare le forze che “tirano” in senso contrario e, alla fine, queste ultime non risultano  determinanti, proprio perché non riescono a contrastare  efficacemente  il costituirsi della “risultante  capitalista”. Trascurare  le mobilitazioni che esprimono livelli di autonomia, le pratiche di  autogestione e di azione diretta solo perché non generalizzabili o  semplicemente perché non definibili in senso rigidamente “classista”  costituisce un grave errore che conduce alla sottovalutazione delle  dinamiche sociali e di classe: ma sopravvalutare queste particolarità  solo perché meglio corrispondono al nostro credo politico può dar  luogo ad una vera e propria catastrofe che allontana dalla realtà e  conduce all'isolamento, così come crediamo stia avvenendo  all'interno del movimento anarchico contemporaneo e nell'anarchismo  in generale il quale, sia pure in considerazione delle sue  configurazioni e diversificazioni attuali, si dimostra comunque  accomunato da una allarmante indisponibilità a ogni riflessione  autocritica. Deriva  auto referenziale e settarismo    Anziché  indagare nel profondo dei suoi limiti e ritardi per  recuperare visibilità e ruolo politico nella realtà sociale,  l'anarchismo contemporaneo preferisce l'auto celebrazione. Vi  è infatti nella pubblicistica, nei pronunciamenti più o meno  argomentati dei compagni e dei gruppi, in quello delle federazioni e  degli aggregati politici organizzati, sulla stampa e nella propaganda  così come nell'azione politica pratica, un'evidente auto   referenzialismo  che accomuna nell'isolamento dai contesti sociali e  di classe ogni concreta esperienza che dall'anarchismo consegue e  all'anarchismo si richiama e che si risolve in una elaborazione  teorica e strategica ripetitiva e nell'inconsistenza tattica che  rendono settaria, inadeguata e incomprensibile l'azione politica,  spingendo ai margini la presenza dell'anarchismo nella società.  Tutto  si risolve in una sorta di “anarchismo tra anarchici” che  difende gelosamente le rendite politiche particolari ormai  generalmente modeste, sia pure acquisite con sacrifici indubbi che,  per altro, ben conosciamo perché sono stati anche i nostri. Un  primo esempio per  identificare questa dolorosa deriva è costituito dall'articolo “Unions - La scampagnata degli sconfitti” (“Umanità  nova” del 29 marzo 2015), avente per oggetto la manifestazione  della FIOM – CGIL a Roma del 28 marzo us, e la sua proposta di “coalizione sociale”.  Tralasciando  la forma dell'articolo, ingiustificatamente aggressiva e  inconcludentemente trionfalistica, la sostanza  delle sue argomentazioni preclude ogni interlocuzione con tutti  coloro che, donne e uomini, si riconoscono ai vari livelli nella  sopra detta proposta: questa moltitudine, estesa e naturalmente  contraddittoria anche in termini di classe, anziché ad  argomentazioni capaci di stimolare una riflessione critica si trova   di fronte all'indisponibilità propria di una dottrina imbalsamata  che presuppone la realtà come problema e l'anarchismo come  soluzione. Raramente l'anarchismo è stato così superficiale. Un  secondo esempio, sia pure più  costruttivo del precedente, è fornito dall'esperienza dei compagni  anarchici impegnati nelle organizzazioni sindacali non confederali.  Questi  compagni si misurano con la drammaticità della fase con tutto  l'impegno, le difficoltà e la generosità che ciò obiettivamente  comporta: ma lo fanno dai cortili di casa propria, privilegiando la  particolarità delle lotte  e delle realtà territoriali e  sottovalutando esperienze più generali  il cui insieme costituisce  la realtà dei fatti determinati: una realtà che volentieri omettono  di considerare perché in netta contraddizione con le posizioni loro  e che proprio per questo rifiutano, costruendosene un'altra a loro  immagine e somiglianza.  Al  riguardo torniamo a ripetere che il ruolo del riformismo nell'attuale  fase imperialistica non si risolve aggirandolo con la scorciatoia  volontarista che conduce a costruire, per forza, la mitica “organizzazione sindacale di classe”, quando la storia del  movimento operaio tira da un'altra parte, la fase imperialistica  attuale la esclude e ai lavoratori interessa poco o nulla come la  generale tendenza in atto a livello nazionale e internazionale – e  non la particolarità dei singoli  casi isolati - dimostra con  eloquenza. Un terzo esempio riguarda le realtà organizzate dell'anarchismo italiano,  alcune delle quali non sotto valutabili per storia, esperienza e  elaborazione politica, ma che procedono nel loro cammino senza porsi  alcun concreto problema di crescita e di radicamento.  Una  valutazione simile potrebbe anche apparire ingenerosa perché, in  fondo, “sbaglia chi agisce” non fosse che queste non  trascurabili realtà anziché procedere isolatamente, riducendosi  alla sola propaganda di buona qualità nei casi migliori ma comunque  insufficiente, unissero le loro risorse quantitative e qualitative  iniziando a concepirsi quale “minoranza agente” nella  definizione e nell'attuazione di un programma minimo di azione  politica concordato, così come noi abbiamo concretamente proposto da  tempo, la presenza politica diverrebbe più visibile,  la crescita  quantitativa meno casuale, l'interlocuzione con le realtà di classe  non più episodica e potrebbero essere poste le basi per un rinnovato  radicamento dell'anarchismo nella realtà sociale. E'  significativo che in tutti questi tre esempi l'interesse particolare,  di gruppo o individuale, finisca per avere il  sopravvento sulle effettive esigenze collettive di crescita.  	Anziché privilegiare gli aspetti unitari,  generali e pratici, quelli che potrebbero unire, si preferisce il  particolare che appaga ma che maggiormente divide non consentendo  alcun progresso: così è che l'anarchismo contemporaneo, barricato  nella sua eclettica dimensione “particolaristica”, settaria e  auto referenziale, è ormai divenuto incomprensibile, suscitando  disinteresse e addirittura ostilità da parte di coloro con i quali  dovrebbe  interloquire, riducendosi a un fenomeno politicamente  irrilevante. Un  quarto esempio - “Il più è  sparso”  Così ebbero  a dire i compagni francesi all'inizio degli anni '70 dello scorso  secolo, quando l'anarchismo parve rinnovarsi ancora una volta: ma non  saremmo obiettivi se rinunciassimo a riconoscere gli errori commessi  da noi, dato che partecipammo a quella fondamentale esperienza.  All'epoca non riuscimmo a guardarci alle spalle con il dovuto rigore  autocritico perché il più era sparso davvero, a partire dai  principali riferimenti storici, di elaborazione e di prassi politica  che non fummo in grado di recuperare, restaurare e riproporre e che  inevitabilmente vennero meno, indebolendoci. Oggi, oltre l'entusiasmo  di quei tempi, se ci caliamo nella profondità della fase storica che  stiamo vivendo non pare proprio che lo stato dell'anarchismo  contemporaneo possa sviluppare linee teoriche, strategiche, tattiche  e organizzative all'altezza delle necessità dei tempi.  Il  determinarsi di questa condizione di insufficienza è quindi da  ricondurre anche ai limiti dell'esperienza nostra quando, negli anni  '70 del secolo scorso, un nucleo comunista libertario di compagne e  compagni fallì l'obiettivo di costruire l'organizzazione politica.  E  così è stato che la considerazione delle troppe e indubbie  circostanze avverse in cui maturò questa nostra sconfitta non ci  avrebbe  impedito di individuare, quale unico merito, gli errori di  quei tempi che furono i medesimi che oggi si replicano all'interno  del movimento anarchico contemporaneo e che abbiamo evidenziato nei  primi tre esempi. Infine  un quinto esempio che, sia pure  differenziandosi dai precedenti, merita di essere affrontato per  l'eco che solleva, in quanto riguarda quei comportamenti  occasionali aggressivi e violenti che vengono ricondotti  all’anarchismo, unitamente a quelle tendenze insurrezionaliste che  all’anarchismo si richiamano.  Tutti  questi comportamenti si qualificano come avanguardisti nell'accezione  più negativa del termine e costituiscono l'epilogo di un complessivo  percorso di sconfitta, così come dimostrano le devastazioni  consumate in occasione della manifestazione del primo maggio a Milano  contro l’Expo, laddove una protesta di opposizione di massa è  stata completamente oscurata e relegata a un fenomeno marginale  rispetto all’operato gratuitamente e  inconcludentemente violento  di poche decine di individui balzati, per questo, agli onori della  stampa borghese:  la successiva “marcia dei milanesi” contro la  violenza che ha significato un rinnovato sostegno di massa all'Expo  ha chiuso il cerchio della sconfitta. Un bel risultato davvero.  Ma  la natura del fenomeno avanguardista è comunque sociale e si  configura come il prodotto esasperato della frantumazione di classe  indotta dalla crisi, dalle sconfitte e dalle antiche ingiustizie  quotidianamente subite e, soprattutto, dello stagnamento delle lotte,  del fallimento del riformismo senza riforme che ha consentito  l'affermarsi della ristrutturazione capitalistica, dell'assenza di  significative vittorie capaci di migliorare la qualità della vita  delle classi subalterne, della perdita di speranza in un futuro  migliore da parte di una crescente moltitudine di soggetti  marginalizzati che si rifugia in logiche di sconfitta che dimostrano  la caduta verticale della consapevolezza di classe e, infine,  dall''insipienza dei rivoluzionari.  Il  velleitarismo e l'avventurismo, unitamente al culto della violenza  sono sempre esistiti quali deviazioni interne ai movimenti politici e  di massa, specialmente nelle fasi di crisi e di stagnazione.  Tali  deviazioni furono individuate e combattute  dal nostro compagno Luigi  Fabbri fin dall’inizio del ‘900, che le qualificò quali  “Influenze borghesi nell’anarchismo”, valutandole sul piano  della teoria e della prassi rivoluzionaria oltre ogni impostazione  scioccamente legalitaria.  Si  tratta di procedere con il medesimo rigore nell’individuare e  respingere i comportamenti che espongono l'azione politica e di massa  alla mercé dell’avanguardismo e quindi, alla repressione e alla  sconfitta. Per  l'organizzazione comunista libertaria Nel  movimento anarchico italiano primeggiano scelte che si esauriscono  “nel metro quadrato sul quale si poggiano i piedi”, a  discapito della definizione di una teoria e di una prassi  rivoluzionaria capace di comprendere la realtà per costruire su  questa consapevolezza, che vogliamo definire scientifica, una  prospettiva comunista libertaria.
 Abbiamo  verificato, nella pratica, come questo nostro orientamento non si  ponga in sintonia con le tendenze dell'anarchismo contemporaneo:  rilanciamo comunque la centralità dell'azione di classe che  sintetizziamo nelle seguenti indicazioni operative rivolte a tutte le  compagne e i compagni che seguono il nostro percorso politico. -  Lo stato dei rapporti di forza tra capitale  e lavoro individua una profonda sconfitta delle classi subalterne,  nella quale diviene essenziale concepirsi e agire come “minoranza  agente” in una fase dove Stato e mercato  hanno consumato il loro storico fallimento e che offre per ciò   inedite opportunità all'azione politica; -  tali opportunità potranno essere efficacemente colte solo se  l'anarchismo saprà rivolgere sue energie più consapevoli verso un  processo basantesi, inizialmente, sull'unità dell'intervento  politico per una maggiore visibilità al fine di definire un concreto  processo di crescita; -  ciò perché uno dei più gravi limiti dell'anarchismo consiste  proprio nella sua ridotta capacità quantitativa, limite questo che  non consente un equilibrato sviluppo qualitativo (poca gente, poche  idee) delle risorse che si intende accumulare, altrimenti destinate  alla dispersione; - le esperienze organizzative che ancora oggi esistono all'interno  del movimento anarchico contemporaneo non esauriscono il percorso per  la costruzione dell'organizzazione politica ma indicano la necessità  di socializzare il patrimonio politico, organizzativo e militante che  queste esperienze esprimono; -  la competizione imperialistica mondiale impone ruoli definiti alle  forze che in essa agiscono. Conseguentemente il riformismo sindacale  deve essere considerato un prodotto storico di questa fase con tutte  le sue caratteristiche oggettive e soggettive, che determinano ruoli  molteplici e contraddittori che aprono spazi all'azione  dell'anarchismo purché efficacemente coordinata; -  ne consegue la necessità di elaborare le tattiche opportune e di  abbandonare le più suggestive scorciatoie ideologiche che inducono  gli anarchici a errori antichi e mai obiettivamente valutati, e che  consistono nel barricarsi nel particolare per replicare inefficaci  alternative organizzate al riformismo sindacale confederale il quale  continua comunque a esercitare il suo ruolo disgregante sull'intero  movimento di classe; -  quanto di non anarchico avviene deve suscitare l'attenzione degli  anarchici, se da queste dinamiche possono scaturire autentici spazi  di intervento politico; -  ciò vale anche per i movimenti sociali parziali o generali, limitati  a particolari situazioni o estesi a contesti più ampi poiché il  solo movimento sindacale, per quanto fondamentale sia, non esaurisce  l'intera dinamica rivoluzionaria e il ruolo degli anarchici in essa;  -  si tratta di iniziare un processo di recupero, restauro e rinnovi  l'anarchismo quale teoria e prassi dell'emancipazione sociale e che  sappia coinvolgere forze nuove anche di provenienza non anarchica; -  In queste indicazioni non vi è una sottovalutazione dell'autonomia  proletaria e della spontaneità ma una loro contestualizzazione  rispetto alla fase in atto, tale da indurre gli anarchici a investire  le loro migliori risorse in un processo organico di costruzione  dell'organizzazione politica comunista libertaria, un progetto capace  di confrontarsi con il presente e con gli errori del passato e che  risulti, per tutte queste sue tensioni accumulate e accumulabili,  accessibile alle nuove generazioni. 
  Comunismo  Libertario 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
   
 
 
 
 
 
 
 
   
 
 
 
 
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